Quanto fa bene una corsa in bus…

Una mattina di inizio autunno. Avevo un incontro per un progetto Interreg al Comune di Varese. Il mio percorso multimodale prevedeva un tratto in battello, uno in treno e infine uno in bus, da via Vittorio Veneto a via Caracciolo. Un viaggio piacevole. Gli orari mi erano favorevoli. Coincidenze perfette. Il piacere di una battellata sul lago alle prime luci dell’alba, un treno che comodamente mi attende al di là della strada, proprio di fronte al pontile. L’arrivo in una città che si sta risvegliando. Mi avvicino al tabellone degli orari per capire quale linea faccia al caso mio e quanto debba aspettare. Devo dare l’impressione di essere un principiante dei trasporti pubblici, perché un tipo sulla sessantina, accento chiaramente varesino, mi offre il suo aiuto. Non credo che stia andando al lavoro. Mi dà l’impressione di essere uno di quei personaggi caratteristici, magari un po’ borderline,  che tutti conoscono e rendono interessante il presepe sociale. Mi ha visto sul treno, probabilmente: come io ho notato lui, lui ha notato me.

“Dove deve andare?” mi chiede.

“In via Caracciolo”.

“Allora tra 10 minuti arriva l’E. Prendo anche io quello”.

“Grazie! Ma i biglietti dove si comprano? Ho già girato due bar ma non li avevano”.

“Guardi che i biglietti si fanno anche sul bus.”

Si allontana e va a salutare alcune signore, forse badanti, che aspettano anche loro alla fermata. Arriva l’E. Salgo e mi arrabatto con la macchinetta dei biglietti. Bella comodità poter acquistare il biglietto a bordo. Però accetta solo monete e non dà resto. Ho solo una moneta da 2 euro. Vabbè: ci rimetterò 60 centesimi, ma avrò il mio biglietto. Una voce dietro di me mi blocca.

“Nooo. Guardi che non dà resto.”

“Lo so, non fa niente: ho solo una moneta da 2 euro”.

E’ una signora sulla cinquantina. Forse meno, ma è vestita in maniera un po’ retrò e questo potrebbe far sballare la stima. Parla perfettamente l’italiano, ma qualche leggera esitazione mi fa pensare che possa essere rumena. O moldava.

“Aspetti”, mi dice “gliela cambio io”, e tira fuori un porta monete che probabilmente è appositamente dedicato a risolvere questo genere di situazioni, che per chi usa i bus possono essere frequenti. Gentilmente scambia i suoi spicci con la mia inutile moneta da 2 euro.

“Grazie!”.

Finalmente posso avere la meglio sulla emettitrice di biglietti: ottengo il mio bel biglietto di corsa urbana valido 90 minuti.

“Guardi che lo deve anche obliterare”.

Giusto. Cerco la fessura per inserire il biglietto, ma non c’è.

“Sotto, deve metterlo sotto”.

Come sotto? Non capisco che cosa intenda, ma provo a cercare una fessura che stia sotto la macchinetta, anche se mi chiedo chi sia quel genio che se l’è immaginata lì”.

“No, non deve inserire il biglietto deve solo avvicinarlo”.

Questa volta è un’altra signora, seduta al primo posto del lato destro, ad intervenire. Il cappotto elegante, di taglio classico è indizio di una signora della borghesia cittadina, che probabilmente per l’età preferisce non usare più l’auto, o forse non ha mai avuto la patente. In effetti noto che sotto la macchinetta non c’è una fessura, ma una lucina rossa. Il biglietto, che effettivamente non è di cartoncino rigido, ma assomiglia ad uno scontrino, riporta un codice a barre. Capisco il trucco: devo scansionare il codice a barre. Avvicino ma niente.

“Deve allontanarlo.”

La signora, forse moldava, rientra in gioco. Dopo alcuni tentativi infruttuosi, mentre la mia attenzione ormai è dirottata verso il cahier des doleances che presenterò alla responsabile del trasporto pubblico, che incontrerò di lì a poco, riesco finalmente a capire che il biglietto va tenuto ad una decina di centimetri per ottenere l’approvazione della obliteratrice.

Ringrazio le due signore che gentilmente mi hanno aiutato nell’impresa, aggiungendo un:

“Certo che non è proprio intuitivo come sistema”, anche per tentare una giustificazione all’impressione di imbranato che temo di aver offerto.

“E’ un nuovo sistema”, mi spiega la signora curata, “Pasquale, da quando l’anno messo?” Chiede all’autista.

“Eh, sarà un paio d’anni ormai”, risponde quello, con accento probabilmente calabrese.

Si inizia una chiacchierata sulle novità dei bus varesini, sui cambi di percorsi delle linee e degli orari. Si aggiunge anche quel signore che mi aveva offerto aiuto alla fermata. L’assistenza collettiva di cui sono stato beneficiario evidentemente ha rotto il ghiaccio.

Mi sento di aver superato un rito di iniziazione, che mi ha concesso di entrare nella comunità degli utilizzatori del trasporto pubblico varesino. Ho l’impressione di essere stato percepito inizialmente come un “corpo estraneo”: un profilo, il mio,  probabilmente non dei più tipici tra i passeggeri di un autobus. Gente come me, forse hanno pensato i miei compagni di viaggio, di solito se ne sta comodo nella sua auto: gli autobus li sorpassa, non ci sale sopra. 

Questa semplice esperienza di vita quotidiana mi ha suggerito qualche riflessione.

La prima. Non è da sottovalutare come il bus sia un efficace strumento di integrazione. Persone con origini, condizioni e stati sociali diverse si riconoscevano in qualche cosa che li accomunava. Le mie difficoltà avevano messo in evidenza la differenza tra me e loro: loro gli esperti, io il neofita. L’esperienza dell’uso frequente dei bus aveva permesso loro di superare le differenze.

La seconda. Mi è venuto spontaneo confrontare l’esperienza degli automobilisti con quella dei passeggeri dei bus. Sappiamo tutti che l’auto è anche status symbol. Mi sono immaginato i conducenti delle Audi che sorpassavano il bus mentre orgogliosamente le mostravano ai loro colleghi. In fondo, i miei assistenti nel viaggio in bus avevano fatto la stessa cosa con gli “accessori” del “loro” bus. In fondo, anche loro dimostravano orgoglio per il loro mezzo. Potrebbe essere una pista interessante per guardare ai servizi pubblici da un altro punto di vista: perché non valutare con più attenzione anche il loro portato simbolico, oltre che efficacia ed efficienza?  Se questa “cosa in comune” che passeggeri di estrazione sociale diversa riconoscevano di avere fosse una fonte comune di orgoglio e prestigio? Nella svizzera italiana l’equivalente del “Liscio come l’olio” è “Come una lettera alla posta”. Senza nulla togliere alla qualità dell’olio, l’orgoglio per il servizio postale è un orgoglio per qualcosa che è costruito insieme, in quanto servizio pubblico, e quindi sentito come merito di ciascuno: gli effetti su senso di appartenenza e senso civico possono essere decisamente superiori. Perché, allora, non ragionare su come rendere anche il bus uno status symbol, qualche cosa di cui andare fieri, di cui vantarsi con chi viene da fuori? Più economico che comprare a tutti un’Audi.

La terza. Mi chiesi se i colleghi che all’interno dell’amministrazione comunale si occupano di trasporti pubblici – e che avrei incontrato di lì a poco – avessero mai fatto un’esperienza di utilizzo del bus come quella che stavo facendo io in quel momento e avessero riflettuto, come stavo facendo io, sul fatto che, con il proprio lavoro, stavano contribuendo ad alimentare l’orgoglio collettivo di cittadini di diverse condizioni sociali. Quell’esperienza mi sembrava utile almeno per tre ordini di motivi.

Innanzitutto aiutava a vedere il trasporto pubblico come un servizio per tutti, e non solo per chi non si può permettere un’auto. Un modo per superare la tentazione di approcciarsi agli utenti con un fastidioso paternalismo, da salvatori che si fanno carico di persone non in grado di badare a se stesse.

In secondo luogo, anche grazie ad un approccio più “alla pari”, un viaggio in bus aiuta  a riconoscere gli effettivi bisogni degli utenti, senza darli per scontati. Tra questi bisogni ci sono anche quelli di appartenenza, di riconoscimento sociale, di relazione. E soddisfare questi bisogni potrebbe essere anche più semplice di quanto si possa pensare, una volta che li si è riconosciuti.

Infine, il pensare ai servizi pubblici come occasioni per consolidare l’orgoglio che persone diverse condividono rispetto a ciò che di buono la propria comunità di appartenenza è in grado di fare, può essere davvero motivante, può offrire una nuova prospettiva di senso per chi lavora nelle istituzioni pubbliche. Come ha funzionato per me, penso possa funzionare anche per molti altri colleghi.