Negoziati dopo Brexit: capitali e beni, sì; persone, no.
Seduti al tavolino di un hotel a Sofia si chiacchiera del più e del meno con colleghi provenienti da diverse parti d’Europa per un seminario sulla “buona governance” negli enti locali. Tra i presenti, anche un navigato gentleman inglese, ora in pensione, ma con una carriera internazionale di tutto rispetto.
Come spesso accade ormai da diversi mesi a questa parte, quando si incontra un inglese la discussione non può che cadere sulla Brexit. Scopro che il mio interlocutore è stato, ed è tutt’ora, a favore della Brexit. Mi sorprende, perché il suo curriculum lo dovrebbe annoverare, secondo gli analisti di quel voto, tra quell’élite acculturata e cosmopolita che si è schierata compatta per lo “stay”, ma è stata battuta dal popolo del “leave”. Proprio per questo sentire le sue ragioni diventa ancora più interessante.
Certamente lo spirito da grande potenza imperiale, più abituata a stabilire le regole per altri che riceverne è evidente dietro a molti dei motivi portati a sostegno della scelta: “siamo abituati all’accountability, ma a Bruxelles non è chiaro chi è responsabile per cosa”, “non capiamo perché, nell’ambito del commercio, pur avendo solo un 15% di scambi con l’Europa, l’UE influenza con i suoi regolamenti più dell’80% delle nostre leggi nel settore”, “abbiamo due sistemi legali differenti e l’approccio UE è incompatibile con il common law britannico”, “dalla stessa morfologia dei campi coltivati si può capire come nel Regno Unito non abbiamo mai voluto che lo Stato interferisse con la proprietà privata, mentre, con le sue regole, la UE vuole ficcare il naso”.
Ora, però, la preoccupazione è per gli accordi che comunque ci dovranno essere tra Regno Unito e UE. E qui, come altrove, l’ambizione è di poter continuare a godere dei vantaggi del libero scambio, ma potendo contare su una maggiore autonomia nel controllare i flussi di persone. Quello del controllo dei flussi di persone è un tema rilevante, troppo spesso condannato a priori come retrogrado e populista. I flussi migratori incidono sulla composizione sociale delle comunità, ma anche sulla loro cultura, sui valori che ispirano il vivere insieme e, non da ultimo, sulle condizioni economiche degli abitanti: non si può negare che l’afflusso di maggiore manodopera finisce per abbassare i salari delle categorie professionali più esposte.
La libera circolazione di beni, ma soprattutto di capitali e l’adozione di una moneta unica o anche di un sistema di cambi controllati, tende a favorire la polarizzazione: emergono pochi centri dove il grosso delle risorse si concentra. E’ l’eterna questione del rapporto tra “città” e “campagna”, tra “centro e periferia”. Nei poli si concentrano gli investimenti, le attività economiche e la produzione della ricchezza. A fronte di questa concentrazione, è accettabile limitare i flussi di persone che dai territori “drenati” di risorse economiche si spostano verso i poli?
Evidentemente ci deve essere un equilibrio. Non si tratta, però, semplicemente di non bloccare i flussi migratori, quanto di adottare politiche di sviluppo regionale che compensino, almeno in parte, la naturale tendenza alla concentrazione.
Questo significa anche farsi carico dei problemi di sviluppo degli altri territori: in un sistema economico altamente integrato, così come si aprono le opportunità offerte da nuovi mercati, si allarga anche l’assunzione di responsabilità rispetto ai loro problemi.
Chissà, forse fatto un bilancio si arriva alla conclusione che è conveniente porre qualche limite in più alla globalizzazione dei flussi commerciali e finanziari. Di certo, però, non ci si può aspettare la famosa “botte piena” insieme all’altrettanto celeberrima “moglie ubriaca”.