Le relazioni di lavoro e la logica del dono… per non cadere nel grande bluff.
Avendo appena concluso l’insegnamento in due corsi sul tema della gestione del personale, uno rivolto agli studenti del Master in Public Management and Policy dell’Università della Svizzera Italiana e l’altro ai Quadri dirigenti degli Enti locali ticinesi, le riflessioni di Luigino Bruni [Bruni L. (2015),Il mercato e il dono, Università Bocconi Editore, Milano] sulla ideologia neo-manageriale che “ormai si insegna in tutte le business school e negli MBA di tutto il mondo” non potevano che stimolarmi a chiedermi: e tu? che messaggi veicoli ai partecipanti ai tuoi corsi?
La tesi del Bruni è molto interessante, a mio parere: l’ideologia neo-manageriale ispira organizzazioni e sistemi di gestione del personale che non rispettano l’umanità delle persone e per questo genera così diffusi casi di malessere, nella forma del burn-out.
La relazione tra l’impresa (o l’amministrazione pubblica) e il lavoratore si basa sul contratto di lavoro, ma in realtà “l’impresa – e sta qui un altro paradosso fondamentale delle nostre moderne organizzazioni – ha bisogno proprio di quanto non può comprare al lavoratore: del suo entusiasmo, delle sue passioni, della sua gioia e voglia di vivere, della sua creatività e del suo cuore“.
Ma queste cose possono essere solo donate liberamente dal lavoratore, non forzate. Per convincere il lavoratore a farlo, l’impresa si richiama a codici simbolici propri di altre sfere: della famiglia, della comunità, della fede. Però (e qui sta il “grande e pericoloso bluff“) non è generalmente disposta a creare gli stessi legami relazionali profondi tipici di queste sfere, perchè li ritiene non più gestibili e controllabili: per cui, se la retorica va da una parte, la sostanza delle relazioni viene mantenuta al livello del contratto.
Quando il bluff diventa evidente al lavoratore, magari dopo che gli anni giovanili si sono consumati, dopo i grandi investimenti personali ed emotivi fatti dalla persona, che spesso è stata portata a lasciare tutto il resto per concentrarsi solo sul lavoro, arriva la crisi.
Secondo Bruni, sono i manager intermedi ad essere più a rischio. Da un lato sono soggetti alla pressione di una forte richiesta di riconoscimento da parte dei subordinati, che chiedono a loro il soddisfacimento di quelle aspettative sottese al bluff. Non sono, però, nelle condizioni di poter soddisfare questa richiesta di riconoscimento, perchè l’organizzazione chiede loro di fare altro (non riescono più a vedere il lavoro dei loro collaboratori, “perchè costretti a passare il loro tempo in mezzo a carte e computer, a produrre grafici, indicatori, controlli”) Dall’altro, essi stessi non ricevono quei segnali di riconoscimento del proprio lavoro di cui anche loro, in quanto esseri umani, avrebbero bisogno.
Almeno due, quindi, sono i correttivi che Luigino Bruni suggerisce.
Il primo: ridare attenzione e importanza alla riconoscenza-riconoscimento data ai lavoratori (manager compresi) per quel dono di sé a favore dell’organizzazione.
Il secondo: “le imprese devono aiutare i propri lavoratori, tutti i lavoratori, a riaprire quelle finestre esistenziali che esse stesse hanno contribuito fortemente ad abbuiare“; devono lasciare che le persone cerchino e trovino veramente risposta a quelle grandi aspettative tipicamente umane (amore, solidarietà, fraternità, libertà) nelle sfere della vita che sono loro proprie: nella famiglia, nella comunità, nella fede
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Sono queste le ricette giuste? A ognuno valutare. Che ci siano problemi nelle dinamiche lavorative, problemi che si manifestano (anche nell’amministrazione pubblica) nella forma di (troppi) casi di burn-out è sotto gli occhi di tutti.
Da parte mia, spero che l’intenzione di sottolineare, all’interno dei corsi, la necessità di mettere al centro dell’attenzione la persona, con la sua domanda di riconoscimento e di realizzazione, sia emersa con sufficiente forza e possa ispirare le scelte organizzative di chi è chiamato a dare forma ad ambienti di lavoro davvero umani.