Detroit: una crisi che viene da lontano
Detroit è la più grande città nella storia degli Stati Uniti ad avere chiesto l’applicazione della procedura di fallimento.
In attesa che il giudice federale Steven Rhodes decida se la richiesta di Detroit può essere accolta, vale la pena ripercorrere la strada che l’ha portata fin qui.
La crisi finanziaria dell’autorità comunale, infatti, non è che l’ultimo gradino di una serie concatenata di altre crisi. Secondo alcuni, il punto di partenza è da ricercare negli anni ’60, quando Detroit era una delle più ricche città americane in termini di reddito pro-capite, con una vocazione economica chiara nell’ambito della produzione automobilistica.
Nel corso del tempo, da una crisi economica è derivata una crisi sociale, che ha determinato una crisi politica e, infine, ha portato ad una crisi finanziaria. Nel corso del tempo le crisi non si sono alternate, ma si sono sommate e aggravate vicendevolmente, innescando un circolo vizioso di declino e povertà.
Il settore automobilistico e la crisi economica.
Nel 1903 Henry Ford stabilì a Detroit la sua impresa per la produzione di automobili, sfruttando la facilità di approvvigionamento delle materie prime, una specializzazione nella meccanica già molto forte, un florido settore di produzione di carrozze. Proprio un venditore di carrozze, William C. Durant, guiderà al successo un’altra impresa automobilistica, la Buick, fino a farla crescere nella General Motors.
Un terzo colosso dell’automotive ha ancora oggi il suo centro nevralgico nei pressi di Detroit: Crysler. Fondata nel 1925 da Walter Crysler come fusione della ditta dei fratelli Dodge con altre in crisi, viene etichettata come una delle “Big Three”, delle grandi Tre. E guarda caso a farle compagnia nel tanto ristretto club ci sono Ford e GM.
Non c’è dubbio, quindi, che Detroit sia la capitale dell’auto a livello americano e, quindi, per molto tempo a livello mondiale.
L’apice del successo lo ha raggiunto dopo la seconda guerra mondiale. Durante il conflitto, fu uno dei distretti produttivi maggiormente coinvolto nelle forniture militari, tanto da essere soprannominato l'”Arsenale della Democrazia”. Con il boom economico successivo, la vendita di automobili ebbe un’impennata. E Detroit ne beneficiò.
Ma il secondo dopoguerra vide anche l’emergere di nuovi poli produttivi concorrenti, a partire dal Giappone, capace di produrre a prezzi significativamente inferiori. Per rimanere competitiva, dunque, l’industria automobilistica americana doveva riorganizzarsi, delocalizzando la produzione in Paesi con un costo del lavoro significativamente più basso.
E’ in questa fase che si iniziano a perdere molti posti di lavoro. E con la disoccupazione, aumenta anche la povertà. La crisi economica diventa crisi sociale.
La crisi sociale: immigrazione, razzismo, disoccupazione.
Gli anni del boom dell’industria automobilistica di Detroit si sono accompagnati ad una forte immigrazione di persone in cerca di lavoro soprattutto dagli Stati del Sud. Si trattava prevalentemente di afroamericani che andavano a serrare le fila degli addetti alle catene di montaggio.
La domanda di manodopera era tale che l’ondata migratoria fu a dir poco imponente. Un tale stravolgimento sociale non poteva non creare problemi che, inesorabilmente, prendevano la forma di tensioni razziali. Diversi furono i momenti di scontro aperto tra bianchi e neri. Celebre fu lo sciopero di 25’000 lavoratori bianchi contro la decisione della Dodge di far lavorare tre afroamericani nello stesso reparto dei bianchi. Lo scioperò causò un sensibile rallentamento delle forniture militari all’esercito impegnato in Europa.
La grande massa di manodopera nera non qualificata fu la prima a soffrire delle delocalizzazioni. I posti di lavoro persi erano soprattutto nelle produzioni meno qualificate, che potevano più facilmente essere spostate in Messico. Rimanevano sul campo lavoratori neri con un bassissimo livello di istruzione e che, quindi, avevano anche le maggiori difficoltà a riqualificarsi.
La disoccupazione porta povertà, la povertà porta disagio sociale, il disagio sociale porta l’aumento dei tassi di criminalità. I quartieri più poveri diventano posti malfamati dove si rischia la vita. Soprattutto se si è un bianco. Il confine tra quartieri bianchi e quartieri neri si fa più netto.
Detroit comincia a divenire un posto sempre meno adatto ad una vita tranquilla. I più ricchi si difendono barricandosi in alcune aree e lasciando il resto della città al proprio destino. E’ in questa fase che chi ha la possibilità di farlo, se ne va altrove. E’ il caso delle famiglie borghesi bianche, che danno il via a quel fenomeno che sarà etichettato come il “volo dei bianchi”, una emigrazione massiccia che renderà certamente più uniforme la compagine sociale, ma appiattendola verso il basso e, soprattutto, privandola delle classi più attrezzate per condurre il sistema cittadino a superare la crisi.
La crisi di leadership politica
In una situazione di grave crisi economica e sociale, tutti rivolgono le proprie aspettative di miglioramento alla classe politica. La politica non è che lo specchio della società. E se nella società non ci sono le forze per risollevare le sorti di una comunità, difficilmente esse saranno sovrarappresentate tra i vertici politici.
La classe politica si ritrova ad affrontare problemi di complessità e portata storica senza le risorse umane e personali necessarie. Non si fa fatica ad immaginare la piega che può prendere l’amministrazione comunale. Si finisce a gestire le emergenze, a navigare a vista, giorno per giorno, rimandando a domani le scelte impopolari e lungimiranti.
Il circolo vizioso ormai si autoalimenta. E la bancarotta finanziaria non è altro che l’inevitabile risultato di problemi ben più profondi.
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La situazione oggi.
Quando il commissario Kevyn Orr ha ufficialmente presentato la richiesta di sottoporre Detroit alla procedura fallimentare del Chapter 9, ha portato i dati di una crisi profonda. Un esempio su tutti: il tempo medio di attesa di una pattuglia della polizia dalla chiamata è poco meno di un’ora.
Per convincere i creditori recalcitranti, avrebbe voluto portarli in un tour per i quartieri della città, dove case abbandonate prendono fuoco senza che i pompieri abbiano la forza di intervenire, dove le auto passano con il rosso per paura di venire attaccate e derubate mentre sono ferme in attesa del verde, dove i cittadini si sono dovuti organizzare in proprio per far fronte alle inefficienze dei servizi pubblici.
Oggi Detroit è una città di poco più di 700’000 abitanti. Ne aveva 1,8 milioni. Dal 2000, il numero di abitanti è diminuito di più di un quarto. Qualcuno ha stimato in 78’000 gli edifici abbandonati. Solo l’8,7% dei crimini viene risolto. Uno dei provvedimenti di Kevyn Orr è stato quello di bloccare d’ufficio il pagamento del salario ad uno dei membri del Consiglio cittadino (il Municipio): semplicemente, da un giorno all’altro aveva fatto perdere le sue tracce.
Ovviamente la situazione non è così drammatica ovunque. Nel quartiere dei grattacieli, continua ad essere sede di multinazionali colossali, a partire dalle big del settore dell’automobile. Accanto ai quartieri degradati, ci sono quartieri residenziali più che decorosi.
Però, nel complesso, Detroit è diventata l’emblema di quanto in basso possono cadere un territorio e la sua comunità quando non si ha la forza (o la fortuna) di reagire efficacemente ai cambiamenti economici imposti dalla globalizzazione. Detroit è rimasta ferma alle formule socio-economiche di quando l’industria automobilistica assicurava benessere per tutti.
Il risultato è stato quello di assistere al fallimento di una comunità.